«La paura arriva prima, i fatti dopo. Anche con un dazio che triplica, il prezzo finale si
muove di poco: siamo nell’ordine del sei per cento, perché nel prezzo pesano soprattutto
logistica, distribuzione e margini», afferma Alessandro Crocco, imprenditore
italo‐americano e presidente del Mediterranean Export Innovation Hub (MEIH). Con
l’entrata in vigore dei nuovi dazi statunitensi il 7 agosto, invita a guardare ai numeri
prima di lanciare allarmi. Il riferimento è all’aggiornamento del quadro tariffario definito
a fine luglio dall’amministrazione USA e reso operativo sette giorni dopo la firma, con
prime applicazioni su merci in arrivo dall’Unione europea e da altri partner commerciali.
Con una carriera che va dall’import-export di food & beverage agli investimenti e alla
consulenza strategica, l’imprenditore respinge l’idea diffusa nel dibattito pubblico che il
dazio sia un interruttore capace di “accendere” automaticamente i rincari. «Il prezzo
nasce – sottolinea – da più voci: valore all’origine, trasporto, assicurazioni, oneri doganali,
distribuzione. La tariffa incide solo su una parte del conto». Per chiarire gli ordini di
grandezza propone un “conto in tasca”: «Merce a 60 mila dollari, logistica a 37 mila. Con
un dazio al 5% l’imposta è 3 mila e il totale fa 100 mila; se il dazio sale al 15% l’imposta
diventa 9 mila e il totale passa a 106 mila. Il dazio triplica, ma il prezzo no: a parità di
ricarico commerciale, lo scontrino si sposta di circa il 6%, molto meno rispetto agli
allarmi».
L’impatto a scaffale dipende anche dal comportamento delle imprese: «Se il dazio alza il
costo – spiega – d’ingresso e le regole di prezzo restano le stesse, l’aumento risale la
filiera. Poiché il margine si calcola sul costo complessivo, può amplificare il rincaro: se
non lo assorbi o non lo compensi con efficienze, paga il cliente». Tuttavia, le aziende non
restano passive: rincorrono i noli, ottimizzano le spedizioni, rivedono il mix di prodotto,
curano gli imballi, attivano fornitori alternativi e, nel breve, assorbono una parte
dell’aumento per preservare la relazione commerciale.
C’è poi il capitolo cambio: «Se vendi in dollari e rendiconti in euro, un dollaro più forte
aumenta il controvalore in euro a parità di prezzo; un dollaro più debole lo riduce. Il
cambio può attenuare o amplificare l’effetto dei dazi, ma non lo determina da solo: è un
pezzo del puzzle insieme a logistica, margini e distribuzione».
Sul fronte politico, l’ex candidato nello Stato di New York per il Partito Repubblicano —
oggi membro della Commissione per l’Internazionalizzazione a Washington — richiama
un tema ricorrente nel dossier auto e nelle note asimmetrie tariffarie usate come leva
negoziale tra Washington e Bruxelles. «L’Unione europea applica il 10% sulle vetture
assemblate negli Stati Uniti, gli USA chiedono il 2,5% su quelle europee; sui pick-up in
America vale il 25%. La richiesta di allineamento è un punto politico comprensibile, ma
non cambia la sostanza economica: il dazio è una frazione del prezzo finale e da solo
raramente decide i volumi».
Sul piano tecnico — spesso trascurato — il fondatore di MEIH, un hub che unisce
imprese, istituzioni e talenti per valorizzare il Made in Italy, supportare le PMI nell’export
e costruire reti tra pubblico e privato, osserva che non tutte le tariffe impattano allo
stesso modo: le liste doganali sono basate su codici e sottocodici, con esenzioni e tempi
di applicazione diversi. Un prodotto può restare escluso mentre uno simile viene incluso,
o l’aliquota può cambiare a seconda della provenienza. È lì che si giocano differenze reali.
Guardando ai mercati, e forte della sua esperienza come amministratore di diverse
società orientate alle relazioni internazionali, Crocco ribadisce la centralità degli Stati
Uniti per molte filiere italiane. «Dove contano qualità, identità e racconto, la domanda è
meno sensibile al prezzo. Un aumento moderato, spiegato con trasparenza, non azzera gli
acquisti: chi cerca un vino di un certo profilo, un alimento tipico o un prodotto ad alto
valore percepito continua a riconoscergli un prezzo adeguato».
Gli shock tariffari possono persino avere effetti indiretti utili e aggiunge: «Accelerano
decisioni che altrimenti resterebbero sospese: filiere più corte e affidabili, contratti di
trasporto più efficienti, magazzini più snelli, posizionamento più chiaro, relazioni più
solide con la distribuzione. Scelte che rafforzano la resilienza anche quando la tempesta
mediatica è passata».
La chiosa resta netta: «Contano i numeri, non i titoli. Il dazio può triplicare, ma il prezzo
si sposta di qualche punto. Meno allarmismo e più analisi, conoscenza dei mercati e
argomentazioni solide. Il resto è mestiere: costi mappati voce per voce, fornitori
diversificati, contratti logistici rinegoziati, coperture sul cambio quando servono,
comunicazione chiara al cliente. Così i dazi si governano, non si subiscono: rotta dritta,
margini difesi, presenza nei mercati che contano rafforzata».